La Rottura
Del Patto Costituzionale
"La rottura del patto sociale, frutto delle politiche liberiste, va insieme alla rottura del patto costituzionale; la regressione dei diritti del lavoro e sociali va insieme alla regressione della democrazia rappresentativa."
Democrazia e conflitti sociali
Quando, con Fabrizio Tomaselli Carlo Guglielmi e Giorgio Cremaschi, ci siamo interrogati sulle ‘modalità’ di questo convegno su La Repubblica Precaria, abbiamo tenuto presente che esiste una domanda di informazione e formazione sulla controriforma della Seconda Parte della Costituzione. Informazione e formazione necessaria, dato che il governo, al di là degli slogan sul taglio dei costi e della semplificazione del procedimento legislativo, non sta fornendo ai cittadini gli strumenti per decidere il proprio voto referendario. Il convegno ha avuto l’obiettivo di coinvolgere un gruppo di militanti sindacali per fornire loro, con dettagliate relazioni, gli elementi per valutare la legge di revisione costituzionale (pubblicata nella Gazzetta ufficiale del 15 aprile 2016). Inoltre, la stampa e la diffusione via Internet degli atti di questo Convegno sono finalizzate a fornire uno strumento nella campagna per il NO nei luoghi di lavoro. Per questo le modalità di svolgimento del Convegno sono state alquanto irrituali, visto che, oltre all’introduzione, sono state svolte sei relazioni andando, senza dibattito, alle conclusioni. La presenza continua e numerosa nella sala ha confermato che nei partecipanti forte era la volontà di ‘informarsi e di formarsi’.
Una seconda scelta, dettata non certo dal tipo di ‘pubblico’, è stata di imperniare il convegno in una disamina critica che mettesse in parallelo le controriforme che stanno distruggendo fin dalle fondamenta il diritto del lavoro e l’azione di demolizione della Costituzione: Renzi e Boschi vogliono portare a compimento ciò che non riuscì a Berlusconi nel 2006. È naturale mettere in connessione Costituzione e lavoro visto che la Carta del 1948 è fondata su di essa.
Povertà e rappresentanza politica
Non mi avventuro in nessuna conclusione, trattandosi di relazioni tanto ampie quanto di primissima qualità, che non hanno bisogno di commenti o chiose, perché le condivido. Mi limito a notazioni che spero utili per dare ancor più forza alle nostre ragioni del NO al referendum costituzionale.
La relazione tra le condizioni di vita e di lavoro – e di non lavoro, è bene sempre ricordare - delle classi popolari e le istituzioni democratiche fu colta in pieno dal movimento Cartista nella Gran Bretagna degli anni Trenta dell’Ottocento. Un attivista appassionato di quel movimento di lavoratori, James Bronterre O’Brien, ebbe a dire: ‘La vostra povertà è il risultato, non la causa del vostro non essere rappresentati’. Ha il sapore di un aforisma. Infatti, mentre non rispecchia i fatti storici perché proprio l’essere poveri e illetterati escludeva i ceti popolari, e non solo il proletariato, dal voto, il cui esercizio era per l’appunto legato all’essere proprietari o al pagamento di imposte per redditi irraggiungibili per i working poors, ha un nucleo di ‘sapienza’ come tra poco farò emergere. Il suffragio censitario era non a caso concepito come una funzione, non un diritto: funzione perché si trattava si eleggere, su una base elettorale ristretta, chi andava a rappresentare interessi omogenei deliberando leggi al servizio dei ceti possidenti. Il movimento Cartista era diffuso tra i lavoratori a cui voleva garantire una rappresentanza in Parlamento, rivendicandolo come ‘diritto’ per combattere lo sfruttamento e la povertà. Il paradosso di quel movimento fu che, mentre esso organizzava i lavoratori, non formulava un programma di rivendicazioni sociali, ma immediatamente politico-istituzionali. Da qui il nucleo di ‘sapienza’ di quell’aforisma: c’è un rapporto tra povertà e negazione della rappresentanza, c’è un rapporto tra democrazia e diritti sociali. In un passaggio Azzariti ha richiamato Hans Kelsen che individuò ‘l’essenza’ del Parlamento nell’essere il luogo del confronto tra interessi sociali e valori ideali delle diverse classi, per questo Kelsen era un convinto assertore del metodo elettorale proporzionale in quanto garante del pluralismo da rappresentare nelle istituzioni. Mi permetto di rilevare che Kelsen non riuscì a superare una visione funzionalistica del voto e della rappresentanza, a causa del primato attribuito ai partiti, intesi come espressioni di classi sociali. Infatti Kelsen suggerì di attribuire i seggi parlamentari ai partiti che potevano delegare loro rappresentanti a secondo dei problemi in discussione in modo da garantire la ‘competenza’, la conoscenza dei problemi in discussione. Pur trattandosi del grande Kelsen, ritengo che sottovalutò la trasformazione subita dal suffragio nel passare da censitario a universale. Prima, per poter votare occorreva misurare la ‘competenza’, e ‘pesare’ il legame tra i ceti sociali e la nazione, infatti la competenza coincideva con l’estensione della proprietà e della ricchezza mobiliare che costituivano anche il legame con la ‘cosa pubblica’: si può decidere degli affari pubblici, se si hanno degli interessi radicati nella società (non per caso era la proprietà terriera il requisito principe), ora qual interesse potevano avere i working poors, essendo dipendenti dai proprietari per il lavoro e l’assistenza? Solo i proprietari erano indipendenti e al tempo stesso cointeressati a che la ‘cosa pubblica’ fosse ben amministrata, pena danneggiare i loro affari e le loro proprietà. Da qui scaturisce il suffragio censitario, finalizzato a organizzare una società in cui contavano solo gli interessi di ristrette cerchie sociali – della borghesia e dei ceti possidenti. Successivamente, con il suffragio universale ad essere espressi sono gli interessi di tutti i cittadini, appartenenti a tutti settori sociali: non si richiede più di essere proprietario, né sono necessarie competenze specifiche per esercitare il voto dato che trattandosi degli interessi di tutti, ognuno ne è a conoscenza – si tratta infatti di decidere delle condizioni di vita, delle aspirazioni, dei valori di ciascuno. Ricordo questo perché nel nostro tempo si riaffacciano pulsioni antidemocratiche in nome della complessità del governare, che riguarderebbe problemi che richiedono competenza, expertise, conoscenze approfondite. Il governo richiederebbe ‘sguardi lunghi’ che solo tecnocrati e imprenditori avrebbero portando ad esempio gli investimenti nelle grandi infrastrutture o nelle fonti energetiche, o la gestione dei mercati finanziari, o la ricerca scientifica, o le questioni bioetiche, o climatiche ecc. ecc.. Il popolo non possiederebbe le competenze in misura sufficiente e dovrebbe affidarsi agli esperti, alla tecnocrazia in grado di dialogare con le imprese, veri centri decisionali delle grandi scelte di investimento e dell’organizzazione dell’intera società. Queste scelte avvengono in modo efficiente solo nel mercato, ed esse assurgono al rango di scelte sociali; i governi, meglio i sistemi di governance, sono solo chiamati a garantire al mercato le infrastrutture legali e istituzionali per il suo regolare operare.
Già Aristotele, cito a mente, scriveva che sì è il nocchiero che sa guidare una nave, ma sono i passeggeri a sapere se il viaggio è confortevole o meno; sì è il calzolaio che sa tagliare e cucire il cuoio ma è chi calza le scarpe a sapere se sono comode. Tradotto significa che sulle questioni ‘pubbliche’, ‘politiche’, riguardando la vita, i bisogni, gli interessi delle persone, sono queste a dover decidere, forti della conoscenza della propria condizione e dei propri valori. Toccando le decisioni pubbliche tutti i cittadini, esse non possono che essere assunte da tutti: ‘ciò che tocca tutti, da tutti deve essere deciso’, per ripetere il vecchio brocardo.
È proprio questo che oggi viene messo in discussione, si badi, non nel senso che si vuole togliere il diritto di voto, abrogare il suffragio universale, si mira però a svuotare la rappresentanza e a depotenziare il voto. Il suffragio universale, garantito in quanto diritto soggettivo, serve a eleggere il proprio rappresentante in modo che egli possa per l’appunto rappresentare l’elettore, portando in Parlamento le sue ragioni, i suoi interessi, le sue aspirazioni e in Parlamento confrontarli con quelli degli altri rappresentanti. Proprio per questa funzione, a mio avviso, il Parlamento è la sede per eccellenza della formazione dell’indirizzo politico, perché in esso si confrontano i rappresentanti delle diverse forze sociali e politiche. Questa funzione, la determinazione dell’indirizzo politico, con la legge di revisione Renzi-Boschi, in combinazione con la nuova legge elettorale (l’Italicum), viene sottratta al Parlamento e innestata sul governo. Sostengono Renzi e Boschi che la forma di governo, tranne essere stata la fiducia riservata alla sola Camera dei deputati, non è stata modificata. In effetti, formalmente gli articoli gli articoli 92-95 della Costituzione non sono stati modificati per la semplice ragione che, sostanzialmente, il mutamento della forma di governo sarà il prodotto della nuova legge elettorale grazie al premio di maggioranza attribuito nel secondo turno quando una qualunque lista, a prescindere dal livello di consenso avendo solo un voto in più dell’altra, ottiene 340 seggi. Il ‘combinato’ della revisione costituzionale con la legge elettorale muta la forma di governo e il fine delle elezioni. Infatti, le elezioni non sono più finalizzate ad eleggere i rappresentanti, sono un voto di investitura del governo. Non a caso la legge elettorale – il cosiddetto Italicum, la legge n. 52 del 2015 e in vigore dal 1° luglio 2016 – riprende le espressioni della precedente legge, il Porcellum, per stabilire che “i partiti o i gruppi politici organizzati che si candidano a governare depositano il programma elettorale nel quale dichiarano il nome e il cognome della persona da loro indicata come capo della forza politica”. Sottolineo che si parla di ‘capo della forza politica’, espressione che la dice lunga sulla concezione della democrazia: si parla di ‘un capo della forza politica’, il quale sarà a ‘capo’ della maggioranza parlamentare, composta per di più con deputati scelti da lui attraverso la designazione di cento capilista in liste corte di candidati, pertanto, sempre da lui selezionati. Non solo. Mi chiedo: che fine fa il ruolo del presidente della Repubblica? Come si potrà rispettare nella sostanza il precetto dell’articolo 92 – ‘il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio’– se con le elezioni avverrà un’investitura del governo? Come potrà il Presidente della Repubblica non scegliere chi è stato investito dal voto popolare come ‘capo della forza politica’ maggioritaria, che automaticamente si trasforma in ‘capo del governo’? Che questo sia l’obiettivo del combinato legge elettorale-revisione costituzionale, lo si può trovare confermato in tutti gli scritti di Roberto D’Alimonte, ascoltato consigliere di Renzi. Esso è riassumibile nello slogan: la sera delle elezioni si saprà chi governerà, dunque il Presidente della Repubblica ha solo il compito di ratificare l’investitura popolare del capo del governo. Con le elezioni si nomina un capo, esse divengono una forma di acclamazione popolare. Non ci si lasci ingannare dall’aggettivo ‘popolare’ perché l’acclamazione è propria dei regimi autoritari. La forma di governo parlamentare si trasforma profondamente, perché non è più in Parlamento che la maggioranza esprime la fiducia al governo, ma è il ‘capo del governo’, che ha scelto con il nuovo sistema elettorale la ‘sua’ maggioranza. Le elezioni non servono per esprimere la rappresentanza, servono per investire il governo, anzi, per investire il capo del governo: ecco perché, nello statuto del PD, Renzi ha accoppiato la figura del segretario e del Presidente del Consiglio, il capo della forza politica che vince diviene il capo del governo. Non è neppure il partito a farsi governo, è il segretario del partito che si fa governo. Per questo Leopoldo Elia parlò di premierato assoluto. Si potrebbe essere tentati dal ricordare il precedente del Cavalier Benito Mussolini, che era appunto ‘Capo del governo’ dicendo che risorge il vecchio mostro italiano del fascismo. Si commetterebbe un errore, perché la tendenza a cancellare la rappresentanza e a centralizzare il potere è una tendenza con specifiche quanto assolutamente contemporanee connotazioni, diffusa oggi su scala internazionale. La concentrazione del potere negli Esecutivi è propria dei sistemi di governance affermatesi in tutto l’emisfero occidentale. La governance, a differenza del fascismo quando lo Stato ‘la faceva’ da primo attore giungendo a comprimere per fini di potenza imperialistica le decisioni dei gruppi capitalistici, è un intreccio di tecnoburocrazia pubblica e gruppi capitalistici privati, che insieme decidono le politiche in funzione degli interessi industriali e finanziari. Il mercato è la stella polare delle politiche pubbliche. Lo stesso Stato, dopo che alle banche centrali dell’UE è fatto divieto di comprare i titoli del debito pubblico, deve approvvigionarsi sui mercati finanziari, dipendendone. La governance è un intreccio ‘pubblico-privato’ che sta svuotando la rappresentanza per dare il primato nelle decisioni politiche al governo e al suo capo, assunte sempre in vista del buon andamento dei mercati e dei suoi attori. Le stesse funzioni di controllo del Parlamento vengono ad essere vanificate perché il ‘capo del governo’ mette in pratica un programma votato alle elezioni, pertanto solo alle elezioni successive si può esprimere un dissenso e si può ‘punirlo’ non rieleggendolo. Gli subentra un altro capo di governo che per cinque anni deciderà disponendo della maggioranza parlamentare. A ragione De Fiores ha richiamato Schumpeter di Capitalismo Socialismo Democrazia, in quanto qui si teorizzano le elezioni come scelta di quale élite sarà chiamata a governare, con la completa svalutazione di essere mezzo di formazione della rappresentanza popolare. La revisione costituzionale della Seconda Parte della Costituzione – io ho contato la modifica di ben 47 articoli – rafforza questo primato del governo dato che essa mira a ‘iper-stabilizzarlo’, per usare un’espressione di Azzariti. Come lo iper-stabilizza? Non solo con il meccanismo della legge elettorale maggioritaria, ma mettendo le mani negli stessi ingranaggi parlamentari, come si usa dire manomettendo gli interna corporis. Per esempio attraverso il controllo dell’agenda dei lavori parlamentari con il ‘voto a data certa’ (ultimo comma dell’articolo 72 revisionato). Quando il governo ritiene che un disegno di legge è parte del suo programma politico può chiedere il voto entro settanta giorni: è la ghigliottina del dibattito parlamentare. Ammesso che un Parlamento di ‘designati’ possa mai dissentire dal ‘capo del governo’ trascinando i tempi dell’approvazione di un disegno di legge, per far sparire questa lontana evenienza il governo può chiederne il voto entro 70 giorni. Questo meccanismo ha l’effetto perverso di mettere nelle mani del governo perfino l’agenda del Parlamento da sempre sua prerogativa. Infatti, un organo non padrone dell’ordine dei suoi lavori cessa di essere autonomo. Che questo disegno di iper-stabilizzazione possa ritorcersi contro Renzi, è divenuta una possibilità visto il successo elettorale di M5S, che ha reso ormai tripolare lo scenario italiano. Ciò dimostra un fatto: la crisi della democrazia non è dovuta alla Costituzione bensì ai partiti politici divenute macchine di potere, ‘partiti pigliatutto’, senza più essere l’espressione di settori sociali; la crisi della democrazia è dovuta alla fuga della sovranità verso centri di potere tecnocratici nazionali e sovranazionali; la crisi della democrazia è una crisi della rappresentanza e non della governabilità. Le scelte di Renzi vanno nella direzione di un ulteriore svuotamento della rappresentanza, senza peraltro semplificare i lavori parlamentari resi più complicati divenendo ben 7 le procedure per il varo delle leggi, oltre le tre previste dall’articolo 72 della vigente Costituzione.
Patto sociale e patto costituzionale
Perché abbiamo deciso di non parlare solo della revisione della Costituzione, avendo messo in parallelo la disamina delle legge Renzi-Boschi e di quelle del Jobs Act, dell’accordo del 10 gennaio 2014 sulla rappresentanza sindacale e della legge delega Madia sulla Pubblica Amministrazione? Perché la costruzione della democrazia costituzionale, quella cioè realizzata nel Secondo Dopoguerra, basandosi sul ripudio dei regimi totalitari del nazifascismo, fondati sul dominio del ‘Capo’ – tanto che fu questa assunzione a determinare il rigetto del presidenzialismo di cui si fece paladino un democratico di sicura fede come Piero Calamandrei –, ha stabilito il primato dei diritti sociali riassumibili nei diritti del lavoro (e dei lavoratori), a cui ha funzionalizzato l’organizzazione dei poteri. L’articolo 3 della Costituzione, richiamato più volte nell’introduzione da Giorgio Cremaschi, statuisce la pari dignità sociale e impone alla Repubblica il compito di ‘rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese’. È questa, lo dico per inciso, una profonda quanto raffinata definizione del socialismo.
Per riprendere l’efficace immagine di Luigi Ferrajoli, la Costituzione ha definito una sfera dell’indecidibile – quella dei diritti, sottratti all’arbitrio delle maggioranze – e quella del decidibile affidata alle decisioni della maggioranza. La democrazia costituzionale è nel suo più intimo tessuto una democrazia antimaggioritaria, mentre oggi si cantano le meraviglie della democrazia maggioritaria. Alla base della scelta del primato dei diritti, e della democrazia antimaggioritaria in quanto democrazia costituzionale, si trova un patto sociale tra le classi, che ora viene rotto. La rottura del patto sociale, frutto delle politiche liberiste, va insieme alla rottura del patto costituzionale; la regressione dei diritti del lavoro e sociali va insieme alla regressione della democrazia rappresentativa. Come O’Brien ebbe a evidenziare povertà e mancata rappresentanza politica si tengono, e il patto costituzionale del Secondo dopoguerra è oggi sotto l’attacco delle élite sia politiche sia imprenditoriali.
Ha scritto Azzariti che la crisi della Costituzione è riconducibile a quella della ‘civiltà del lavoro’, edificata con le lotte sociali e politiche dopo la Seconda guerra mondiale. Questa fase storica è stata caratterizzata da un compromesso tra il capitale e il lavoro, grazie all’economia mista e alle politiche di impronta keynesiana, e da un equilibrio di potere tra le classi in virtù del quale la produzione e i consumi di massa assicuravano sì ampi profitti ma anche alti e garantiti livelli occupazionali e una redistribuzione della ricchezza, mediante la tassazione progressiva e l’universalità dei servizi pubblici. Volendo usare concetti di Karl Polanyi, si potrebbe dire che il capitalismo dell’epoca della civiltà del lavoro era incastrato nella società, sotto il controllo della ‘politica’. Non solo nel Secondo dopoguerra – periodo a cui ci si riferisce con la locuzione ‘Trenta Gloriosi’ –, pure dopo la Prima guerra mondiale si determinò, in special modo in Germania e Austria, un equilibrio tra le classi, che trovò espressione nelle loro Costituzioni. La preservazione di quell’equilibrio divenne, peraltro, il perno della strategia politica dell’austromarxismo, la più avveduta delle tendenze socialdemocratiche negli anni Venti del Novecento.
Nella Repubblica di Weimar la proprietà privata non ebbe più uno statuto privilegiato, anzi se ne affermò la funzione sociale e al contempo si costruì un sistema di diritto del lavoro capace di limitare il potere capitalistico nelle fabbriche grazie ai consigli dei lavoratori e al ruolo del sindacato. Al fine di affermare il primato della ‘politica’ sull’economia, Hugo Sinzheimer contribuì alla redazione degli articoli della Costituzione di Weimar sul diritto del lavoro e si prodigò per la loro traduzione in leggi per istituire una democrazia economica volta a salvaguardare i lavoratori dall’arbitrio del potere padronale e a promuovere la loro partecipazione alla gestione delle imprese. Il disegno di Sinzheimer era di creare, a fianco della comunità politica, una ‘comunità economica’ dove lavoratori e imprenditori fossero su un piede di parità nel rispetto dei principi di libertà ed eguaglianza. Come di recente ha scritto Ruth Dukes, Weimar è il sistema proto-corporatista di Stato sociale, e ha funto da riferimento per la costituzionalizzazione dei sistemi di welfare del Secondo dopoguerra. Le costituzioni – segnate da Auschwitz e dal nazifascismo – non sono state più Carte istituenti e disciplinanti poteri, dato che hanno incorporato valori sotto forma di principi che vincolano l’attività legislativa a tal punto che il Parlamento non è più sovrano nelle sue decisioni. Le leggi hanno un giudice, la Corte costituzionale, che può emettere sentenze di annullamento guidate da principi e disposizioni della Costituzione. L’articolo 1 del Grundgesetz afferma esplicitamente, al comma 3, che ‘i diritti fondamentali vincolano la legislazione, il potere esecutivo e la giurisdizione come diritto immediatamente valido’. Sovrana è la Costituzione, riprendo ancora Azzariti, non appartenendo più la sovranità al re come nelle monarchie o al Parlamento come negli Stati legislativi. La sovranità della Costituzione implica l’immediata efficacia delle sue norme, che non sono dunque un ‘programma’ affidato alla discrezionalità decisionale del Parlamento e delle forze politiche. I diritti, garantiti in Costituzione, determinano l’organizzazione dei poteri essendo questi predisposti alla loro attuazione. La ‘politica’ è chiamata a realizzare il disegno costituzionale incentrato sulla garanzia dei diritti fondamentali, siano essi civili, sociali o politici che trovano il loro fondamento unitario nel principio della dignità della persona. Se si tiene ben a mente lo stretto legame tra patto costituzionale e patto sociale si può cogliere il capovolgimento in atto: dalla Repubblica fondata sul lavoro a una Repubblica fondata sull’economia e sulla finanza. Il capovolgimento si può riassumere nella formula: l’economia domina la politica, grazie alla supremazia conquistata dal neoliberismo.
Si potrebbe sostituire la domanda di Fabio Merusi ‘chi è l’assassino dell’articolo 41?’, con l’interrogativo: ‘chi è l’assassino della Costituzione?’. La risposta sarebbe la stessa: la rivoluzione conservatrice, portata avanti dalle classi dirigenti che stanno costruendo i mercati – sia finanziari sia per la produzione e scambio di merci e servizi – su scala globale determinando uno slittamento della sovranità verso istituzioni, imprese e centri finanziari transnazionali, accompagnato dall’evaporazione dei diritti in guidelines (linee guida) e benchmarks (parametri di eccellenza), espressioni della soft law (legge soffice, non rigida) propria della regolazione dei mercati.
Una nuova ‘costituzione economica’ è venuta emergendo, che non è quella pensata da Sinzheimer, è quella dell’ordoliberalismo assunto a guida della costruzione europea fin dalla sua nascita. Non più la ‘dignità della persona’, a fondamento del nuovo ordine sociale e politico sono il mercato e le merci.
La globalizzazione richiede la massima competitività delle imprese e dei territori dove sono insediate, e la massima mobilità dei capitali e delle persone. Ciò comporta due conseguenze: la prima nei luoghi di lavoro dove non sono più tollerati conflitti, al contrario si domanda la più ampia disponibilità a collaborare con il management, libero però di utilizzare e licenziare i lavoratori – le leggi di modifica dei contratti di lavoro, in Italia denominate Jobs Act e diffuse su scala continentale, sono state dettagliatamente esaminate da Carlo Guglielmi, alla cui relazione non posso che rinviare. La seconda conseguenza è che le istituzioni politiche devono porsi al servizio delle imprese e della finanza, e non devono più essere l’espressione dei cittadini dovendosi esse piegare ai meccanismi della governance.
È avvenuto un capovolgimento del diritto del lavoro promosso dall’Unione Europea e sancito dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia, per esempio con le sentenze Viking e Laval: i diritti sociali e del lavoro devono essere ridefiniti non contro ma in sintonia con il mercato, il diritto del lavoro va ridisegnato come diritto del mercato del lavoro. Il rovesciamento consiste in un processo di incastro della società nel mercato.
Il Senato polimorfo
Davvero si supera il bicameralismo? Davvero si delinea un Senato delle Autonomie, secondo quanto prescrive l’articolo 5 della Costituzione? Non sono solo le analisi e le considerazioni di Laura Ronchetti a mettere in dubbio che il Senato prospettato dalla legge di revisione rappresenti le ‘istituzioni territoriali’ (articolo 55 quinto comma), basta leggere quanto Gianfelice Rocca, presidente dell’Assolombarda, ha dichiarato al Corriere della Sera (del 24 maggio 2016): “Eviterei di sfiduciare le autonomie per gli errori che in tante hanno fatto, la burocrazia centrale non è una risposta convincente. L’innovazione nelle società moderne viene quasi sempre dal basso. Quindi dico Sì [alla revisione Renzi-Boschi] con l’impegno a riproporre più avanti una riflessione sull’articolazione dei poteri tra centro e periferia, senza dimenticare la UE....insisto non basta riaccentrare”. Gianfelice Rocca, parlando per l’Assolombarda, pensa a istituire forme di autonomia che consentano alla Lombardia e alle Regioni del Nord di marciare verso l’integrazione con le aree europee innanzitutto tedesche per dare ancor più impulso alla creazione di valore delle filiere produttive transnazionali, valga per tutte l’automotive. Indubbio però che abbia colto il senso della revisione costituzionale in direzione di un accentramento. Il minimo che si possa affermare è che il nuovo Senato è un’istituzione ibrida: oltre a cinque senatori nominati dal Presidente della Repubblica, ci saranno 95 rappresentanti eletti dalle Regioni tra i propri consiglieri e tra i sindaci (nel numero di 20), e però ‘in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo dei medesimi organi’ (articolo 57, sesto comma, del testo revisionato). Dunque rappresentanti delle istituzioni territoriali e al contempo rappresentanti dei cittadini del territorio. Le istituzioni che i senatori dovranno rappresentare sono peraltro diverse le une dalle altre: le Regioni sono organi con potestà legislativa, mentre i Comuni sono organi dell’autonomia. Il Senato è polimorfo, organo dai contorni indefiniti, ciò che si riverbera sulle sue competenze in quanto partecipe del processo legislativo, ma con limiti che, lungi dal semplificarlo, lo complica perché i confini delle materie legislative su cui il Senato può esercitare il voto, a prescindere dalle diverse procedure che la Camera dovrà seguire per la decisione finale, non sono rigidi. Per questo motivo si assisterà a contenziosi prima tra Camera e Senato, tanto che si prevede all’articolo 70 che i due Presidenti li dirimano, e poi all’intasamento della Corte costituzionale chiamata a pronunciarsi sulla legittimità delle leggi per vizio nella loro formazione. Il carattere ibrido lo si coglie appieno leggendo l’articolo 55 revisionato, dove al quinto comma si scrive che il ‘Senato della Repubblica rappresenta le istituzioni territoriali ed esercita funzioni di raccordo tra lo Stato e gli altri enti costitutivi della Repubblica’, e l’articolo 67 dove si dispone che i ‘membri del Parlamento esercitano le loro funzioni senza vincolo di mandato’. Delle due l’una: o i nuovi senatori rappresentano le istituzioni territoriali e dunque sono una loro espressione; o rappresentano i territori e dunque i cittadini, quindi non le istituzioni. Se rappresentanti delle istituzioni è illogico che esercitino le loro funzioni senza vincolo di mandato, se non sono vincolati rappresentano i cittadini e non le istituzioni. Prima si ha in mente il Bundesrat dove però il voto è vincolato dai Länder, poi ci si inventa un Bundesrat all’italiana dove, pur rappresentandole, i senatori sono liberi rispetto alle istituzioni territoriali.
La spinta alla centralizzazione del potere, rilevata da Gianfelice Rocca e ben documentata da Laura Ronchetti, si riscontra anche nella revisione del Titolo V, che andava di sicuro riscritto dati i conflitti di attribuzione da essa innescati, di certo non andava revisionato nel senso di concentrare le competenze nello Stato centrale riducendo le Regioni ad apparati amministrativi. Il legislatore della revisione costituzionale del 2001 aveva prescritto: ‘Spetta alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato’; la legge Renzi-Boschi elenca le materie di competenza regionale molte delle quali si sovrappongono a quelle statali con il risultato di alimentare i conflitti di attribuzione (come già avvenuto dopo la pessima revisione del 2001), e di spingere verso l’amministrativizzazione di organi con potestà legislativa. Un pasticcio. Meglio il monocameralismo e il potenziamento della Commissione parlamentare per gli Affari regionali e della Conferenze unificata Stato-Regioni-Comuni.
A questo processo di ‘amministrativizzazione’ delle Regioni, facilitato da un ceto politico regionale inquinato dalla corruzione e dal malgoverno, si è accompagnato un processo di privatizzazione del lavoro pubblico, indicato come nemico dei cittadini e causa di tutti i mali italiani (la burocratizzazione, le procedure complesse che portano allo stallo decisionale ...), mentre i servizi pubblici sono stati smantellati e i lavoratori pubblici hanno visto bloccati i loro contratti. Arturo Salerni ha passato al setaccio le norme della ‘riforma’ Madia sull’organizzazione del lavoro pubblico. Occorre sempre tenere a mente che i lavoratori pubblici sono coloro che fanno funzionare i servizi pubblici, quindi non sono nemici bensì alleati dei cittadini, e che le loro condizioni di lavoro sono funzionali ad un efficace gestione dei servizi volti a garantire i diritti sociali.
Destabilizzazione del lavoro e stabilizzazione del governo: questo disegno politico non è stato solo di Forza Italia e del PD, è stata la strategia delineata dai grandi centri finanziari e delle Banche centrali – in tutte le relazioni sono stati ricordati la lettera di Draghi e Trichet del 5 agosto 2011 e il Rapporto del 28 maggio 2013 della grande banca JP Morgan, che chiedevano riforme per rafforzare l’esecutivo, introdurre il pareggio di bilancio, abbattere i diritti sociali, deregolamentare il mercato del lavoro, privatizzare i servizi pubblici.
Traduco alla lettera alcuni passi del Rapporto della JP Morgan: ‘All’inizio della crisi, fu assunto in generale che i problemi ereditari nazionali fossero di natura economica. Ma, come la crisi si è andata sviluppando, è divenuto chiaro che c’erano problemi profondamente politici nei paesi periferici, che, a nostra avviso, necessitano di un mutamento se l’EMU [Unione Economica Monetaria] deve funzionare propriamente nel lungo periodo. I sistemi politici nella periferia furono stabiliti dopo la dittatura, e furono connotati da quella esperienza. Le Costituzioni tendono a mostrare una forte influenza socialista, che riflette la forza politica che i partiti di sinistra guadagnarono dopo la sconfitta del fascismo. I sistemi politici della periferia mostrano tipicamente diversi dei seguenti tratti: esecutivi deboli; Stati centrali deboli rispetto alle Regioni; protezione costituzionale dei diritti del lavoro; sistemi consociativi che alimentano il clientelismo politico; e il diritto di protestare se cambiamenti non ben accetti sono apportati allo status quo’. Per la JP Morgan non c’è solo una crisi economica, c’è una più profonda crisi politico-istituzionale che richiede drastici interventi: è il programma di aggressione alla democrazia e ai diritti sociali che i governi voluti e sponsorizzati dall’UE danni stanno eseguendo. Il problema sono le Costituzioni con influenza socialista – si ricordi l’articolo 3 della nostra Carta –, ed esse devono essere cambiate. Renzi sta agendo per abbattere quella italiana seguendo le orme di Berlusconi, e prima Monti, forte del consenso del PD e di Forza Italia, ha sferrato un colpo duro, sotto la spinta della lettera di Draghi-Trichet e del Fiscal Compact, introducendo il pareggio di bilancio attraverso la revisione dell’articolo 81.
Dieci anni fa, il 25 e 26 giugno 2006, la stragrande maggioranza dei cittadini bocciò la controriforma di Berlusconi analoga a quella di Renzi, nel prossimo autunno si può ottenere di nuovo una vittoria referendaria, però questa volta dobbiamo accompagnarla con una mobilitazione per cancellare anche le leggi che hanno distrutto il diritto del lavoro e annichiliti i diritti sociali, forti della consapevolezza che Costituzione e lavoro possono insieme perdere, e per questo insieme devono vincere.