Governo Forte,

Regioni Deboli

"...oltre le comunicazioni e le professioni, la produzione, il trasporto e la distribuzione nazionali dell’energia nonché le infrastrutture strategiche, le grandi reti di trasporto e di navigazione di interesse nazionale."

di Laura Ronchetti

Riforma Renzi-Boschi: la centralizzazione dei poteri

Il discredito che ha colpito le autonomie territoriali negli ultimi anni rischia di condizionare pesantemente la riflessione sulla ennesima revisione costituzionale del Titolo V della Parte II della Costituzione attualmente dedicato a “Le Regioni, le Province, i Comuni”.

Per cogliere appieno il significato del Titolo V è opportuno collocare gli articoli interessati (artt. 114-133) nel tessuto complessivo della Costituzione. Il rilevante numero di articoli coinvolti –per certi versi sorprendente – spinge a chiedersi perché le autonomie territoriali occupino tanto spazio della e nella Costituzione, suggerendo che si tratti comunque di disciplina affatto minore, non secondaria, per l’intero ordinamento repubblicano.

Per rispondere a tale interrogativo è rilevante cogliere i nessi esistenti tra il Titolo V e Principi Fondamentali e la Parte I della Costituzione dedicata ai Diritti e doveri dei cittadini. Tra questi ai nostri fini assume centralità l’articolo 5 della Costituzione che recita “la Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento”.  In prospettiva storica può dirsi, dunque, che l’articolo 5 ha avuto un primo svolgimento con il testo originario della Costituzione, peraltro attuato soltanto dal 1971 con la tardiva istituzione delle Regioni ordinarie; una seconda forma attuativa con la complessiva riforma costituzionale del triennio 1999-2001 e attualmente torna ad essere oggetto di un ulteriore progetto di revisione costituzionale promosso dal ddl Renzi-Boschi.  

È opportuno domandarsi quale idea di autonomia territoriale si sviluppi in queste tre differenti fasi nel passaggio dal testo originario a quello attualmente vigente, fino all’eventuale nuovissimo Titolo V.

Il principio autonomistico e pluralismo

Con l’articolo 5 s’introduce, come immodificabile, il principio autonomistico nella nostra Costituzione. Con questo principio si aggiungeva un ulteriore tassello alla visione pluralista dell’ordinamento e delle forme della convivenza che pervade l’intera Costituzione. Garantire sfere di autonomia – dunque di autodeterminazione, di autogoverno, di libertà, di potere di darsi un proprio ordinamento – significa riconoscere e valorizzare la pluralità, non solo dei soggetti individuali, ma anche di quelle collettivi. Tra i soggetti collettivi, oltre a quelli tipicamente sociali, nel nostro ordinamento assumono un ruolo chiave le autonomie territoriali, di cui appunto si occupa il Titolo V. Può, dunque, dirsi che tale Titolo sia lo svolgimento sul piano territoriale del principio supremo autonomistico. 

In altri termini più che le specifiche competenze e funzioni, l’idea che sorregge il principio autonomistico risiede nella convinzione che le autonomie territoriali non sono meri enti funzionali all’indirizzo politico dello Stato ma enti esponenziali e rappresentativi di una comunità in grado di esprimere un indirizzo politico anche diverso da quello della magioranza politica che guida lo Stato.  Un’attività di indirizzo politico proprio che soltanto per le Regioni si svolge tramite la potestà di adottare di leggi, affidata alle assemblee rappresentative della comunità.

I nostri Costituenti, dunque, optarono per un regionalismo politico, in cui il potere d’indirizzo politico deriva, non dallo Stato, ma dalla comunità di riferimento abbandonando l’alternativa funzionalista delle la prospettiva che, invece, le considera meri enti idonei a veicolare le risorse del territorio verso obiettivi di settore, come ogni altro tipo di ente pubblico.

Sarebbe superficiale, dunque, ridurre il regionalismo a mera questione di competenze legislative quando, invece, è parte significativa del rapporto complessivo che si crea tra la comunità politica e il territorio, tra popolo e Repubblica.

  L’asse portante del principio di autonomia è sempre la collettività che l’ente dovrebbe rappresentare. Le istituzioni territoriali sono, quindi, strumenti di partecipazione popolare all’esercizio del potere politico. Per questo “la elettività di tali organi è principio generale dell’ordinamento” (Sentenza della Corte costituzionale. n. 96 del 1968), principio oramai messo in crisi dalla legge Delrio (l. 7 aprile 2014 n. 56) che ha soppresso l’elezione diretta dei Consigli provinciali.

Tale principio generale dell’ordinamento come vedremo è messo in discussione anche dal nuovo Senato facendo sorgere interrogativi su quale visione della rappresentanza politica la riforma costituzionale potrebbe contribuire a determinare. 

Le tante insufficienze, negligenze e nefandezze addebitabili alle autonomie territoriali non dovrebbero impedire di scorgere e riconoscere che non di rado le esperienze regionali e locali hanno anticipato importanti conquiste sociali (basti pensare al diritto alla casa, ai consultori, ai centri antiviolenza o al reddito di cittadinanza) e hanno sperimentato nuove forme della convivenza (dal co-housing alla filiera corta nelle produzioni agricole, dalla ospitalità diffusa all’ippoterapia). Talvolta hanno anche saputo contrastare efficacemente una politica nazionale lesiva dei diritti fondamentali, come ha riconosciuto la Corte costituzionale. È importante in proposito ricordare le leggi regionali che, di fronte al Pacchetto sicurezza, hanno espressamente riconosciuto i diritti fondamentali a tutte le persone presenti sul territorio a prescindere, non solo dalla cittadinanza, ma anche dalla regolarità del permesso di soggiorno.

  Si tratta di un esempio lampante di come il conflitto tra indirizzo politico statale e quello locale possa creare quei pesi e contrappesi che sono considerati garanzie costituzionali contro ogni tipo di tendenza o tentazione accentratrice del potere.  

Il principio di autonomia diviene così “garanzia di libertà contro ogni avventura autoritaria”, come scriveva Crisafulli, ed elemento caratterizzante la dimensione democratica della Repubblica.

La Repubblica, inoltre, è il soggetto (complesso) incaricato dalla Costituzione di attuare tutti i principi supremi dell’ordinamento, dal promuovere la cultura al diritto al lavoro, passando per quello che è definito “il compito” per eccellenza, vale a dire perseguire l’uguaglianza sostanziale (articolo 3, comma 2, Costituzione): nella loro qualità di enti interni alla Repubblica, quindi, le autonomie territoriali compartecipano alla attuazione dei principi supremi dell’ordinamento.

Le aspettative riposte nei Consigli regionali sono state spesso deluse. Tra le cause di questa crisi dei Consigli, tuttavia, rientra anche la riforma del Titolo V intervenuta tra il 1999 e il 2001 che ha introdotto un meccanismo istituzionale contraddittorio: da un lato, si è fortemente potenziata la competenza legislativa regionale, dall’altro, si è invece determinata la marginalizzazione politica dei titolari della relativa potestà – i Consigli regionali – che sono stati esautorati dal nuovo ruolo del Presidente della Regione, direttamente investito dalla comunità. La conseguente crisi dei Consigli ha impedito ancora una volta di valorizzare la politicità dell’autonomia regionale intesa come attività di indirizzo politico esercitata in maniera prioritaria attraverso la potestà legislativa.

Con la revisione costituzionale in corso si è deciso di ricentralizzare in capo allo Stato molte delle materie attribuite alle Regioni nel 2001, mentre si lascia intatta la forma di governo regionale che dal 1999 prevede lo scioglimento del Consiglio in caso di qualunque motivo porti alle dimissioni (compresa la morte) del Presidente della Regione. 

  Interesse nazionale e regionalismo

L’incapacità dei Consigli regionali di svolgere fino in fondo la loro missione crea un problema in una forma di Stato regionale. Nel regionalismo, infatti, l’interesse generale o nazionale o repubblicano non si esaurisce negli interessi statali. Le espressioni del pluralismo territoriale –riconducibili a differenti comunità e territori – sono tutte chiamate, infatti, a concorrere alla composizione dell’interesse nazionale dell’intera Repubblica, che è composta da Comuni, Province, Città metropolitane, Regioni e Stato (articolo 114 Cost.).

Nella revisione costituzionale Renzi-Boschi, invece, l’interesse nazionale – espressamente reintrodotto in Costituzione dopo essere stato eliminato nel 2001 perché l’esperienza dell’originario Titolo V aveva mostrato la sue potenzialità scardinanti ogni garanzia per le Regioni – rischia di ritornare a essere prettamente statale.

Se attualmente ogni singolo parlamentare (deputato e senatore) rappresenta la Nazione, nel progetto costituzionale in itinere la sua rappresentanza spetterà unicamente ai deputati. Se i senatori non rappresentano più la Nazione, deve prendersi atto che i componenti del Senato della Repubblica non perseguiranno l’interesse nazionale, ma altri interessi intesi evidentemente come particolaristici. La attribuzione della rappresentanza della Nazione soltanto ai singoli deputati, dunque, sembrerebbe segnare una netta separazione, se non contrapposizione, tra quelli locali e gli interessi nazionali che finiranno per coincidere con quelli meramente statali. 

Secondo il ‘nuovissimo’ Titolo V, anzi, l’interesse nazionale rischia di corrispondere all’interesse invocato dal Governo.

In base alla revisione in corso, infatti, il Governo potrà invocare l’interesse nazionale per attivare la c.d. clausola di supremazia che consentirà l’intervento dello Stato in materie riservate dalla Costituzione alle Regioni (articolo 117, comma 4, Costituzione). In tale ipotesi la Camera dei deputati può superare le eventuali modificazioni ‘proposte’ dal Senato con un voto a maggioranza assoluta (art. 70, comma 4). La maggioranza assoluta richiesta alla Camera, tuttavia, è inferiore al numero di seggi che la nuova legge elettorale - l. n. 52 del 2015, detta Italicum – attribuisce in premio (340 seggi sui 630 della Camera dei deputati) alla lista che otterrà il 40% dei voti o vincerà il ballottaggio. Si tratta, dunque, di una maggioranza che supera la stessa maggioranza necessaria per derogare alle competenze regionali in nome dell’interesse nazionale. La clausola di supremazia, quindi, è un procedimento affidato, in ultima analisi, alla maggioranza che sostiene il Governo.

Il Senato che dovrebbe rappresentare le istituzioni territoriali, dunque, non partecipa in condizioni paritarie con la Camera dei Deputati alla decisione su quanto rendere flessibili i confini stabiliti in Costituzione tra le materie statali e regionali. In tal modo non si attribuisce alla Seconda Camera una essenziale funzione di rappresentanza delle istituzioni territoriali che ne giustificano l’esistenza. Eppure una seconda Camera in una forma di Stato regionale avrebbe la funzione di sede di raccordo tra tutti gli enti costitutivi della Repubblica al fine perseguire l’interesse nazionale, generale o repubblicano.

In caso di attivazione di questa ‘clausola’ non vi è, invece, garanzia che l’autonomia regionale non venga irragionevolmente compressa dal Governo, che addirittura potrà prescindere dalle eventuali divisioni interne alla stessa maggioranza di governo.  Questo profilo della legge di revisione costituzionale in itinere, dunque, rappresenta un saliente punto di contatto tra la compressione del pluralismo politico e di quello territoriale. 

L’obiettivo di spostare in sede politica e rappresentativa la contrattazione sul riparto delle competenze è alla base, d’altra parte, della richiesta a lungo condivisa pressoché unanimemente di una seconda Camera quale sede della rappresentanza politica delle istituzioni territoriali. Tale obiettivo di creare un’istituzione rappresentativa che possa definire quanto oggi affidato al contenzioso sul riparto di competenze di fronte alla Corte costituzionale non sembrerebbe, tuttavia, soddisfatto dalla revisione costituzionale in corso. 

L’eliminazione della potestà concorrente: una novità apparente

L’obiettivo di ridurre i conflitti di competenza davanti alla Corte costituzionale non sarà soddisfatto neanche dalla maggiore novità della revisione in corso che è l’eliminazione della competenza concorrente tra Stato e Regioni, presente sin dal testo originario della Costituzione e fortemente ampliata nel 2001. Eppure proprio il mantenimento di un elenco di materie in cui lo Stato stabilisce i principi fondamentali e le Regioni le norme di dettaglio avrebbe giustificato la presenza delle istituzioni territoriali in una seconda Camera. In tal modo le Regioni avrebbero partecipato all’individuazione dei principi fondamentali della materia in modo da prevenire il contenzioso costituzionale.

L’eliminazione della potestà concorrente, inoltre, non avrà particolari effetti benefici sul contenzioso costituzionale sul quale questa competenza incide relativamente.

Per di più si tratta di ‘eliminazione apparente’: le materie spostate dalla competenza concorrente a quella esclusiva statale (tutela della salute, istruzione e governo del territorio) sono anticipate da espressioni nuove come “disposizioni generali e comuni”, che produrranno comunque una compresenza tra norme statali e quelle regionali con il relativo conflitto.

Le Regioni, inoltre, non sapranno più se osare fino al limite dei principi fondamentali della materia desumibili dalla legislazione già vigente e sulla base della giurisprudenza pregressa o se, invece, tutto cambierà. Sarà inevitabilmente chiamata la Corte costituzionale a dover dare l’interpretazione di cosa siano queste nuove formule, contribuendo a una nuova stagione di contenzioso davanti alla Corte costituzionale. Eppure la revisione costituzionale Renzi-Boschi si pone l’obiettivo dichiarato di ridurre la conflittualità tra Stato e Regioni. 

È stato soprattutto l’esercizio della competenza esclusiva statale o la sua rivendicazione a fronte dell’esercizio della potestà legislativa regionale ad aver pesato in modo significativo sul contenzioso di fronte la Corte costituzionale. 

Infatti proprio lo Stato – il cui potere legislativo ha approvato le citate revisioni costituzionali del Titolo V, incrementando la potestà legislativa delle Regioni (ordinaria e statutaria) – ha in seguito rivendicato con determinazione davanti la Corte costituzionale un’interpretazione particolarmente estensiva delle proprie competenze.

In questa giurisprudenza può cogliersi un generale orientamento della Corte costituzionale teso a mitigare il – certamente eccessivo – depotenziamento del ruolo dello Stato contenendo al contempo alcune tra le più forti spinte neocentraliste.

È pur vero, tuttavia, che questo riaccentramento in capo allo Stato poteva essere affrontato più proficuamente, forse attenuandone gli eccessi, se ci fosse stata una sede politica rappresentativa di raccordo e negoziazione sul riparto delle materie, delle competenze e delle relative risorse.

Con la revisione costituzionale Renzi-Boschi si porta a compimento quella svolta neocentralista che si percepì subito dopo l’entrata in vigore della revisione del 2001, consentita dalla giurisprudenza costituzionale, ma si va oltre quanto deciso dalla Corte costituzionale.

Nell’ampliamento delle competenze statali operata dalla legge di revisione vi è la collocazione in capo allo Stato di molte materie che nel 2001 sono state attribuite alla competenza concorrente: ad esempio, oltre le comunicazioni e le professioni, la produzione, il trasporto e la distribuzione nazionali dell’energia nonché le infrastrutture strategiche, le grandi reti di trasporto e di navigazione di interesse nazionale.

L’attribuzione a titolo esclusivo allo Stato di queste materie conferma che le istituzioni territoriali sono state espunte dal suo perseguimento dell’interesse nazionale. Non sarà più obbligatorio, infatti, prevedere forme di leale collaborazione tra lo Stato e gli altri enti della Repubblica per la disciplina di queste materie e le relative attività amministrative sottraendo alle autonomie territoriali la possibilità di difendere i propri territori.

Sarà unicamente lo Stato, o meglio il Governo, a decidere quanto concedere ai singoli territori, senza che le relative comunità possano invocare le attuali garanzie costituzionali.

Anche altre attribuzioni allo Stato a titolo esclusivo destano preoccupazione con particolare riferimento alla tutela e sicurezza del lavoro accompagnate dalle politiche attive sul lavoro. Si modifica così radicalmente l’attuale modello delle politiche del lavoro in una direzione anticipata dal Jobs Act. Il nesso tra salute e sicurezza nel e del lavoro, infatti, è sempre stato individuato nella prevenzione e nella vigilanza per le quali sembrerebbe determinante l’intreccio con la tutela della salute e con la strutturazione in Asl di competenza regionale. Il riaccentramento in capo allo Stato delle competenze sulla vigilanza senza un parallelo trasferimento dell’intero sistema sanitario con le connesse funzioni di prevenzione, dunque, potrebbe alterare il legame tra prevenzione e vigilanza oggi incardinato sulle Regioni e le loro strutture operative. 

Altri spostamenti in capo allo Stato annichiliscono, infine, ogni autonomia regionale.

In particolare il passaggio della materia del ‘coordinamento della finanza pubblica’ dalla potestà concorrente a quella esclusiva dello Stato non si limita a recepire quanto già consentito dalla giurisprudenza costituzionale, ma va ben oltre: non sarà più garantita, infatti, alle Regioni neanche l’individuazione delle singole voci di spesa all’interno del contenimento deciso dallo Stato. È vero che su tale materia è intervenuta anche la legge di revisione del 2012 sull’equilibrio di bilancio, ma ciò non toglie che una competenza concorrente in materia obbliga costituzionalmente a lasciare un qualche spazio alla autonomia finanziaria di spesa delle Regioni.

  Al di là di ogni retorica sul cd federalismo fiscale, infatti, l’autonomia finanziaria nasce democraticamente come rivendicazione di scegliere come e in cosa investire le risorse pubbliche. Parte saliente del programma politico con cui ci si candida alle elezioni di qualunque tipo è l’indirizzo politico su come utilizzare le risorse a disposizione. Se il mantenimento della competenza concorrente in materia potrebbe far riespandere i margini decisionali delle Regioni, la sua attribuzione esclusiva in capo allo Stato, invece, rischia di eliminare ogni ipotesi di autonomia finanziaria di spesa delle autonomie regionali. 

Quale autonomia, quale politicità?

È facile rilevare l’incoerenza della scelta di trasformare il – comunque confermato – bicameralismo per dare voce a livello statale ad autonomie territoriali fortemente ridimensionate.  Non convince la tesi di vedere nel nuovo Senato una forma di compensazione della perdita di sfere legislative in capo alle Regioni.

A fronte della perdita di garanzia costituzionale della competenza legislativa delle Regioni è opportuno, dunque, domandarsi quale accezione del principio autonomistico intenda perseguire la revisione costituzionale in corso.

Per rispondere a questo interrogativo, oltre a guardare alla quantità delle funzioni e delle competenze, diventa dirimente interrogarsi sulla loro qualità, sulla loro natura. Oltre la significativa contrazione delle competenze regionali, dunque, deve rilevarsi che nelle materie affidate alle Regioni si moltiplicano i riferimenti alla mera programmazione e organizzazione, promozione e valorizzazione che sono interamente riconducibili all’attività amministrativa dei Consigli. Saremmo di fronte, quindi, a una definitiva amministrativizzazione delle Regioni. 

  La connotazione prettamente amministrativa della legge regionale finirà per rendere più acuta la crisi della politicità del territorio, non più pensato come spazio politico della comunità ma concepito come ente per eseguire obiettivi di settore. 

Analogo scivolamento potrebbe coinvolgere il Senato della Repubblica. La legge di revisione costituzionale, infatti, attribuisce alla seconda Camera la valutazione delle politiche pubbliche e dell’attività delle pubbliche amministrazioni, nonché la verifica dell’attuazione delle leggi, funzioni che si connotano chiaramente per essere attività di carattere tecnico-amministrativo e non certo di controllo e indirizzo della politica nazionale, funzione rimessa a titolo esclusivo alla Camera dei deputati. 

La spinta verso la spoliticizzazione coinvolge, dunque, entrambi i livelli di governo. L’ambigua natura che le autonomie regionali sembrerebbero assumere nella prospettiva della riforma è, infatti, strettamente connessa l’anfibia natura del nuovo Senato.  

È difficile, infatti, cogliere il tipo di rapporto rappresentativo che i cento nuovi senatori potranno esprimere: liberi nel mandato tanto quanto i deputati che continueranno a esprimere la fiducia al Governo, i senatori selezionati dai Consigli regionali (al loro interno e tra i sindaci) e dal Presidente della Repubblica sono definiti “rappresentativi delle istituzioni territoriali” (art. 57, comma 1). La circostanza che i componenti del Senato non godano della qualifica di “rappresentanti” suggerisce l’assenza di un rapporto di rappresentanza e di responsabilità politica dei senatori con le istituzioni territoriali. Se questa interpretazione dovesse trovare riscontro, si rischierebbe di avere, quindi, un nuovo Senato della Repubblica autorappresentativo e autoreferenziale.

   Le trasformazioni delle sedi rappresentative, dunque, sembrerebbero trovare echi e parallelismi tra il livello statale e quello locale dando forma alla crisi dell’idea stessa dell’ente esponenziale rappresentativo, crisi nella quale il territorio è pensato non come spazio politico della comunità ma concepito nella sua dimensione quantitativa amministrativizzata. Sembrerebbe, quindi, in corso un ridimensionamento della politicità delle autonomie territoriali e della Camera che le dovrebbe rappresentare a favore di una loro riscrittura in senso funzionalista.  

Non infondata appare, di conseguenza, la preoccupazione che le Regioni e con esse la Camera che le rappresenta costituiranno un contrappeso decisamente meno significativo al potere statale e in particolare al potere del Governo. La connotazione garantista del principio autonomistico, quale elemento strutturale della dimensione democratico-costituzionale della Repubblica, verrebbe fortemente ridimensionata, modificando il modo d’essere della Repubblica. Se tale cambiamento investirà soltanto la portata normativa dell’art. 5 Cost., ovvero avrà ricadute su tutti gli altri principi fondamentali della Costituzione, è questione aperta.  

In passato non è mancato chi, come Ernesto Ragioneri, abbia colto come la questione delle autonomie in Italia riemerga in tutti i momenti di crisi e di passaggio perché espressiva anche dei “rapporti di classe e di potere affermatisi in Italia dall’unificazione” in poi. Anche in questa fase il nuovo intervento sulla forma di Stato regionale trova corrispondenze con esigenze insite negli sviluppi delle forme di interdipendenza a livello globale. La lex mercatoria e le sue istituzioni spingono per il progressivo indebolimento della dimensione politica degli enti territoriali, sia di quello sovrano (lo stato) che di quelli autonomi, a favore di una concezione funzionalista dei territori intesi come mere proiezioni spaziali di dinamiche socio-economiche, come semplici luoghi della pianificazione economica e territoriale, se non di mera competizione.  

Non deve sottovalutarsi che questa accezione impolitica delle forme della convivenza continua a trovare una forma di resistenza nelle Costituzioni ancora vigenti. Con lo sviluppo dei fenomeni della globalizzazione risulta sempre più evidente che, per quanto siano depotenziati i limiti posti nelle Costituzioni democratiche – sotto forma garanzia dei diritti e di divisione dei poteri –, la loro forma scritta rappresenta tuttora un ostacolo al pieno dispiegarsi della lex mercatoria. 

Le Costituzioni della ‘periferia’ europea e tra queste quella italiana – per usare le parole di un’autorevole istituzione della globalizzazione, la banca JP Morgan nel suo Rapporto del 28 maggio 2013 – si caratterizzerebbero, infatti, oltre che per “esecutivi deboli; disposizioni costituzionali di tutela dei diritti del lavoro; sistema di costruzione del consenso che favorisce il clientelismo politico; il diritto di protestare se modifiche non benvenute sono fatte allo status quo”, anche “per Stati centrali deboli rispetto alle Regioni”. 

La riforma delle autonomie locali, in effetti, rientra già nelle politiche di condizionalità che si sono travasate nell’ordinamento dell’Unione europea. Basti ricordare che la lettera del 5 agosto 2011 rivolta all’Italia a doppia firma del Governatore della Banca d’Italia e del Presidente della BCE – oltre alla riforma pensionistica, al blocco del turn over, alla riduzione degli stipendi pubblici, alla modificazione della contrattazione collettiva – ‘invitasse’ a mettere sotto stretto controllo, non solo l’assunzione di indebitamento, ma anche le spese delle autorità regionali e locali nonché espressamente ad abolire le Province. 

In questa direzione è possibile leggere, dunque, non solo l’introduzione in Costituzione nel 2012 del pareggio di bilancio che orienta anche il regionalismo italiano, ma la riforma Delrio che ha eliminato la elettività diretta per i nuovi enti di area vasta che hanno sostituito le vecchie province che, dunque, non sono soppresse. È quindi possibile cogliere un filo rosso tra queste riforme e la legge di revisione costituzionale Renzi-Boschi. 

Con queste osservazioni conclusive non si intende affatto negare l’opportunità di ripensare – per limitarsi a quel che in queste riflessioni rileva – il rapporto tra lo Stato e le autonomie territoriali disciplinato dal Titolo V della Costituzione, soprattutto al fine di rimediare agli errori commessi con le precedenti revisioni costituzionali (leggi costituzionali n. 1 del 1999 e n. 3 del 2001 e nonché quella del 2012), quanto piuttosto di contestualizzare l’orizzonte di senso dell’attuale progetto di riscrivere ancora una volta una parte così significativa della Costituzione.