I Partiti Politici:
Funzione Democratica

O Vocazione Maggioritaria ?

"La stessa leadership non è più collocata all’interno di una dimensione organizzativa permeata sulla base di istanze ideali, ma tende progressivamente a tramutarsi in 'psicotecnica della direzione di partito'"

di Claudio De Fiores

RAPPRESENTANZA POLITICA E COSTITUZIONE

Riprendo il tema svolto da Gaetano Azzariti alla fine della sua relazione, perché sul rapporto tra crisi della rappresentanza politica e capacità di tenuta dell’assetto costituzionale si è molto discusso, trattandosi di due profili strettamente intrecciati, destinati a condizionarsi vicendevolmente. Un nodo che non è facile da dipanare, in ragioni delle complesse interazioni ad esso sottese sul piano politico, sociale, economico. Da costituzionalista ritengo tuttavia che due siano le questioni dalle quali partire. Da una parte la forma partito e le sue trasformazioni. Dall’altra la questione della legge elettorale, intesa kelsenianamente quale congegno tecnico-normativo di formazione della rappresentanza.

La parabola democratica dei partiti politici

Con il declino dei partiti di massa e la contestuale irruzione della società civile viene improvvisamente meno in Italia quello che era stata la rete politica di sostegno della Repubblica, il punto di raccordo tra popolo e Costituzione, l’articolazione dei soggetti storici che avevano reso possibile la scrittura della Carta fondamentale e la sua (parziale) attuazione. La dimensione ternaria partiti-rappresentanza-costituzione su cui poggia la stessa costruzione weberiana del diritto pubblico moderno entra così in crisi. A farne le spese in prima battuta è il sistema proporzionale, non a caso ritenuto l’anima, il corollario esistenziale della «democrazia dei partiti».

Le ripercussioni sul piano costituzionale sono inevitabili. E ciò per la semplice ragione che tutti gli istituti di garanzia previsti in Costituzione subiscono con l’introduzione del maggioritario un inevitabile processo di indebolimento: riserva di legge, poteri delle minoranze parlamentari, ruolo delle istituzioni di garanzia, procedure di revisione della Costituzione.

Allo stesso tempo muta profondamente la dimensione proiettiva del partito all’interno della sfera parlamentare e istituzionale in genere. Il deficit di legittimazione democratica che investe i partiti è destinato fatalmente a riprodursi, amplificandosi, nelle sedi istituzionali. Le dinamiche parlamentari di questi anni ci hanno in più circostanze dimostrato che il sistema può funzionare anche senza partiti.

D’altronde quale può mai essere la funzione e il peso specifico dei partiti in un Parlamento nel quale le decisioni vengono assunte senza dibattito, scavalcando il ruolo delle commissioni, esautorando gli spazi del confronto attraverso pratiche di dubbia costituzionalità e procedimenti coattivi di decisione (mi riferisco alla famigerata ed abusata sequenza decreto legge – maxi emendamento – voto di fiducia)?

Deprivati dei tradizionali strumenti della decisione politica, i partiti appaiano del tutto inadeguati a gestire le dinamiche parlamentari e il processo legislativo in particolare. Essi si limitano a giocare una partita di rimessa nei confronti dell’esecutivo. Il declino dell’iniziativa legislativa parlamentare è sintomo più evidente del declino di iniziativa politica tout court del partito.

Ecco perché fare i conti con la rappresentanza politica significa, a mio modo di vedere, fare i conti con le trasformazioni del partito politico. Trasformazioni così incisive da aver indotto parte della letteratura a parlare addirittura di fine del partito politico. Non entro in questa disputa che mi pare per molti aspetti leziosa e fuorviante (per l’evidente ragione che la risposta sulla loro esistenza o meno dipende da cosa intendiamo noi per partito politico).

Ciò che mi pare invece più interessante è provare a comprendere cosa sono divenuti i partiti politici. E qui azzarderei una prima possibile risposta: le grandi formazioni politiche che animano oggi lo scenario italiano (ma per molti versi anche europeo) sono partiti post-democratici. Siamo cioè passati da partiti democratici di massa a partiti post-democratici del leader.

Di qui l’esigenza di fare i conti con la storia e con un dato che mi pare incontrovertibile: i partiti politici hanno costituito nel corso del Novecento l’approdo politico più avanzato nell’organizzazione dei sistemi democratici. Perché sono stati proprio i partiti – come ci ricorda G. Leibholz, in Struktureprobleme der Modernen Demokratie,(Problemi strutturali della moderna democrazia), Karlsruhe, 1958, pp. 90 ss. – ad aver reso possibile “l’integrazione politica del popolo” (nella sue diverse componenti politiche, culturali, sociali) nella vita dello Stato, ad aver disegnato le costituzioni contemporanee, ad aver innovato l’organizzazione degli Stati, ponendo finalmente a contatto le masse popolari con quelle istituzioni che lo stato liberale gli aveva per lungo tempo precluso.

Oggi non è più così. E da più parti ci si dice che dobbiamo fare i conti con Schumpeter (J. A. Schumpeter, Capitalismo, socialismo, democrazia (1954), Milano, 2001, pp. 290 ss.). Ma il partito schumpeteriano si colloca al di fuori dell’alveo costituzionale, per la semplice ragione che l’idea del concorso democratico, sottesa all’art. 49, non ha nulla da spartire con un’idea della “competizione politica esattamente simile alle pratiche di associazioni fra commercianti o industriali intese a regolare la competizione economica”. Il partito di Schumpeter è un partito che predilige gli elettori agli iscritti e in quanto tale non è più definibile attorno a istanze ideologiche.

La stessa leadership non è più collocata all’interno di una dimensione organizzativa permeata sulla base di istanze ideali, ma tende progressivamente a tramutarsi in “psicotecnica della direzione di partito”. Un partito quindi non più strutturato organizzativamente attorno a opzioni ideologiche definite, ma che preferisce comunicare attraverso ‘la pubblicità di partito’ e ‘gli slogan’ divenuti “elementi non accessori ma essenziali nella vita politica”.

Tutto ciò ha contribuito profondamente allo scadimento della rappresentanza politica. Gli eletti sono progressivamente divenuti in questi anni un ceto sempre più chiuso e autoreferenziale, sprovvisto di una legittimazione diretta. Non voglio riprendere la polemica sulle liste bloccate, anche perché io non le ho mai ritenute, in linea di principio, un attentato alla sovranità popolare. Aggiungo però che esse sono un lusso che solo partiti forti, democraticamente organizzati, radicati sul territorio e ad alta intensità di partecipazione politica possono permettersi. Diversamente ci troveremmo di fronte allo scenario di questi anni con membri del Parlamento non più eletti dai cittadini, non più espressione dell’apparato del partito, ma direttamente reclutati dalle sue oligarchie ( o come oggi si usa dire cerchi magici ...) sulla base di parametri che nulla hanno a che fare con la capacità politica dei singoli candidati (ma piuttosto con la loro affidabilità, fedeltà, lealtà al capo).

Tutto ciò ha contribuito ad alimentare un senso di smarrimento e di frustrazione da parte degli elettori, sempre meno capaci di “determinare la politica nazionale” e sempre più indotti a rifugiarsi nell’astensionismo.

A tale riguardo va però chiarito che al deficit di legittimazione prodotto da tali fenomeni degenerativi non ha in alcun modo corrisposto un deficit di potere da parte di queste organizzazioni politiche. Anzi, in termini inversamente proporzionali potremmo dire, che tanto più grave è divenuta la crisi di legittimazione dei partiti politici, tanto più cresciuta in questi anni la loro forza in termine di potere. E con essa l’istinto autoreferenziale del ceto politico, la loro penetrazione nei gangli vitali dello Stato e delle istituzioni territoriali.

Un esito questo favorito dalla progressiva personalizzazione della politica. Ridurre il confronto politico a una competizione personale comprime l’articolazione della rappresentanza, favorendone l’identificazione con il capo.

Ma accanto a questo vi sono perlomeno altre due profili del dominio delle leadership che meriterebbero di essere attentamente indagati e con i quali siamo chiamati a fare i conti. Da una parte la supremazia del leader nei confronti dell’organizzazione interna, divenuta sempre più subalterna al capo. Dall’altra la progressiva trasformazione dell’impegno organizzativo – ciò che in passato veniva definita la militanza e che alludeva per sua natura a un vincolo interno - in adesione esterna, occasionale, spesso abilmente manipolata dai media, e per questa via dai poteri economici, finanziari e talvolta anche dai poteri criminali. L’esperienza delle primarie docet.

E così sarà anche in futuro, stando al contenuto delle più recenti misure normative adottate in materia di partiti. Mi riferisco all’avvenuta abolizione del finanziamento pubblico della politica, sancita dal Governo con decreto legge 28 dicembre 2013, n. 149.

Siamo in presenza di un unicum nel quadro europeo che mette in discussione lo stesso fondamento non solo della rappresentanza politica, ma della stessa democrazia costituzionale, intesa quale forma di organizzazione del potere sganciata dal dominio del mercato. E ciò per una ragione del tutto evidente: un eccessivo squilibrio nell’impiego delle risorse economiche condiziona la competizione elettorale, altera la rappresentanza politica, attribuisce al mercato una posizione di potere nello svolgimento del processo elettorale. Abolito il finanziamento pubblico, i partiti continueranno sì a vivere ma solo grazie alla loro organica dipendenza dagli interessi forti organizzati nella società. Sarà dal potere economico che dipenderà, in definitiva, la determinazione della politica nazionale e non più dai cittadini (così come pretenderebbe l’art. 49 della Costitituzione).

La vocazione plebiscitaria del sistema elettorale

Il secondo terreno di compressione dell’articolazione della rappresentanza democratica è senza dubbio costituito dalla legislazione elettorale. La legge n. 52/2015 ne è una eloquente dimostrazione. Una legge approvata per far fronte alla sopravvenuta dichiarazione di incostituzionalità (Sentenza Corte costituzionale n. 1/2014) della legge elettorale previgente (legge n. 270/2005), ma che di essa ripropone tuttavia tutti i principali difetti. A cominciare dall’astrusa previsione delle clausole di sbarramento.

Su questo vorrei essere netto. A mio modo di vedere, in un sistema imperniato sul premio di maggioranza, le soglie di sbarramento non dovrebbero esistere. Delle due l’una: o si introduce un premio per la lista più votata o le soglie.

La formazione della rappresentanza politica non può avvenire imponendo una doppia strozzatura: in alto e in basso. Introdurre le soglie significa azzerare il diritto di voto di centinaia di migliaia di cittadini, senza ragione alcuna e senza alcun giovamento per la cd. governabilità (che sarebbe comunque garantita dal premio).

Il perseguimento delle ragioni della governabilità – come ci rammenta il giudice costituzionale – deve avvenire con il “minor sacrificio possibile” (sent. n. 1/2014) degli altri interessi costituzionali. In questo caso, tuttavia, la soluzione prospetta si muove su un piano diverso, per certi aspetti paradossale, dal momento che il sacrificio che il sistema rappresentativo sarebbe chiamato a sopportare non è né minore, né maggiore. Ma solo inutile.

C’è una sorta di moda, alimentata in questi anni dall’ideologia del maggioritario, a introdurre soglie di sbarramento a piè sospinto, anche laddove non ve ne siano le condizioni, né tanto meno se ne avverta il bisogno. Una moda silente, ma pervasiva che sottende una ripetuta avversione per le minoranze politiche.

E infatti di soglie di accesso non vi era alcun bisogno nella normativa elettorale per le elezioni europee (dal momento che nell’Ue non c’è un problema di ‘governabilità’ visto che il Parlamento europeo è un’entità marginale, sprovvista di indirizzo politico). Né tanto meno ve ne sarebbe bisogno oggi.

Il nuovo sistema elettorale si presenta ai nostri occhi come una sbiadita e stantia riproposizione delle vecchie ricette del maggioritario all’italiana e delle sue principali perversioni: provare a instillare artificialmente il bipolarismo (o addirittura il bipartitismo), irrigidire i sistemi di voto, comprimere le soggettività politiche.

Eppure sulle modalità di costruzione dei congegni elettorali la sentenza della Corte era stata chiara: il legislatore – ammonisce il giudice costituzionale – deve limitarsi ad ‘agevolare’ la formazione delle maggioranze di governo, ma non può imporle, perché ciò rischierebbe di produrre una “eccessiva divaricazione tra la composizione dell’organo della rappresentanza politica e ... la volontà dei cittadini espressa attraverso il voto” (, Sentenza n.1/2014, Considerato in diritto, §. 3.1).

Ecco perché – come dice la Corte – il premio di maggioranza ha sempre bisogno di una soglia per poter validamente ‘scattare’. Ed ecco perché qualora nessuna delle forze politiche in competizione dovesse meritare tale ricompensa (per mancato raggiungimento del plafond di voti richiesto), i seggi a disposizione dovrebbero essere coerentemente assegnati con il sistema proporzionale (come è sempre avvenuto in tutti i sistemi elettorali con premio fino a oggi sperimentati: dalla legge Acerbo del 1923 alla legge elettorale n. 148/1953.

Ma l’attuale legge elettorale disdegna risolutamente questa ipotesi e, a fronte del mancato raggiungimento della soglia, non esita a rilanciare, prefigurando una exit vote diversa, più drastica e selettiva: un secondo turno elettorale a seguito del quale assegnare il premio. A tale competizione potranno accedere solo le due liste più votate al primo turno e il vincitore otterrà il 54% dei seggi (pari a 340 deputati).

Una soluzione che, più che sanare le incongruenze del sistema evidenziate dalla Corte, parrebbe piuttosto esasperarle. Come si è detto, per il giudice delle leggi la previsione del premio non è ex se contraria a Costituzione, a condizione però che la sua applicazione sia rispettosa dei principi di «proporzionalità e ragionevolezza» e avvenga con il “minor sacrificio possibile” per la rappresentanza, in modo da non compromettere il “sistema di democrazia rappresentativa e della forma di governo parlamentare prefigurati dalla Costituzione” (Sentenza citata, Considerato in diritto, §. 3.1).

Ne discende da siffatte premesse che se in un regime parlamentare “agevolare la formazione di una adeguata maggioranza, allo scopo di garantire la stabilità del governo del Paese e di rendere più rapido il processo decisionale» è un «obiettivo costituzionalmente legittimo” (Sentenza citata, Considerato in diritto, §. 3.1), non lo è invece il tentativo sotteso all’attuale legge elettorale di predeterminare, ab origine, la ‘consistenza’ dell’esito elettorale. Fino a stabilire con legge che al partito più votato dovrà essere in ogni caso attribuita (e quindi se non al primo, certamente al secondo turno) una maggioranza dei seggi talmente ampia da essere “in grado di eleggere gli organi di garanzia che restano in carica per un tempo più lungo della legislatura” (Sentenza citata, Considerato in diritto, §. 1.1).

Ma vi è dell’altro. Con l’introduzione del secondo turno, il terreno di confronto cessa di essere quello della rappresentanza, per divenire esclusivamente quello dell’investitura del leader: non ci saranno più le preferenze, non ci saranno più le liste, non ci saranno più i candidati (più o meno ‘bloccati’). In una sorta di vortice tutto viene travolto per far posto, secondo modalità di espressione del voto tipicamente plebiscitarie, alla “idolatria della governabilità, della stabilità, della personalizzazione del potere, tutto a un uomo solo” (G. Ferrara, In un Paese civile, in Nomos, 3/2013, 2).

La legge n. 52/2015 si muove pertanto su un terreno che non è più quello della democrazia parlamentare, ma semmai quello della democrazia di investitura E tutto ciò – si sente ossessivamente ripetere – al fine di assicurare a tutti i cittadini la possibilità di conoscere “a sera stessa delle elezioni” il nome del Presidente del Consiglio. Una patologia ansiogena assai singolare che non ha riscontri in nessun’altra democrazia parlamentare europea (dalla Germania al Regno Unito).

La condizione prioritaria posta dalla Corte (il rispetto del vincolo di proporzionalità nella determinazione del rapporto tra soglia e premio) verrebbe così elusa. Il giudice costituzionale ha infatti ammesso il premio di maggioranza, ma solo quale esito ponderato di un confronto elettorale aperto tra tutte le forze politiche e non quale istanza risolutiva all’interno di una competizione selettiva comprendente solo le due liste più forti con i loro capi.

Blindata all’interno dei rigidi schemi binari della governabilità coatta anche la morfologia della rappresentanza rischierebbe di uscirne profondamente alterata. Potrebbe infatti avvenire che la lista che ha ottenuto al primo turno il 20% dei voti prevalga poi al secondo sulla formazione politica che aveva ottenuto il 39%, (quasi) triplicando così i propri seggi (dal 20% al 55%). La casualità e l’indeterminatezza del premio, censurate dalla Corte con la Sentenza n. 1/2014, continuerebbero in tal modo a sopravvivere seppure sotto mentite spoglie.

Su questo punto, tra la pronuncia della Corte e i contenuti della legge di riforma, parrebbe così essersi innescato una sorta di corto circuito: se obiettivo della Corte era quello di favorire la costruzione di un sistema meno esposto al caso e in grado di “agevolare la partecipazione alla vita politica dei cittadini” (Sentenza citata, Considerato in diritto, §. 5.1), con l’introduzione di questo sistema a doppio turno si rischierebbe, all’opposto, solo di incrementare i già consistenti margini di accidentalità e di apatia politica tra gli elettori.

Di qui il delinearsi di un assetto normativo che rischia di aggravare ulteriormente le già fragili condizioni della rappresentanza democratica. Uscirne non è facile. Anche perché una sola è la exit strategy che abbiamo a disposizione. Invertire radicalmente la rotta, scardinare l’ideologia del maggioritario, rilanciare un’altra idea di rappresentanza. E ciò vuol dire immaginare una diversa legge elettorale imperniata sulla proporzionale e in grado di rispecchiare l’articolazione politica e sociale del Paese; porre fine alla devastante retorica della governabilità e all’etica del capo; prendere definitivamente le distanze dalla democrazia d’investitura; ampliare gli spazi della democrazia costituzionale, concentrando la rappresentanza politica in un’unica sede (cd. monocameralismo) e consentendo ai cittadini di potersi pronunciare anche sui trattati europei e internazionali. È così che si affrontano sul terreno costituzionale le sfide della globalizzazione, non recependo passivamente le ricette della JP Morgan.

Ma allo stesso tempo dobbiamo però essere consapevoli che la condizione risolutiva per provare anche solo a immaginare un’inversione di tendenza in questa direzione è la sconfitta della riforma costituzionale approvata in Parlamento. Solo se saremo in grado di sconfiggere il disegno restauratore del governo Renzi, avremo domani la forza per mobilitarci per un’altra idea di rappresentanza politica. Solo allora saremo nelle condizioni di riattivare il processo democratico in Italia.