Più Potere

Meno Democrazia

"La volontà di estromettere l’organo della rappresentanza popolare per far diventare la revisione costituzionale una questione di 'governo' è stata manifesta e continua"

di Gaetano Azzariti

Democrazia costituzionale e Parlamento

Quando si riforma una Costituzione si mettono in gioco le proprie convinzioni più profonde. È possibile che una nuova legge ‘ordinaria’ sia giustificata in ragione della convenienza del momento, non altrettanto può avvenire per la Costituzione. Nel caso della legge ‘suprema’ è l’idea stessa di democrazia che deve sostenere le ragioni che inducono al cambiamento. Quel che ci si propone non è infatti una innovazione contingente, né può farsi valere lo stato d’emergenza. Lo scopo di una revisione costituzionale è quello di proiettarsi verso il futuro per definire un nuovo ordine sociale. Solo preservando questa dimensione ‘superiore’ (di valore e non di scopo) si può salvaguardare la natura di pactum consociationis al testo costituzionale, in grado di esprimere i principi comune che sostengono la convivenza di un popolo. A questa dimensione si cerca di sfuggire, preferendo la banalizzazione politica della riforma costituzionale. Quando si ripetere che si cambia la Costituzione per poter ‘governare’ – e non invece per affermare valori di democrazia – si confessa la propria inadeguatezza.

Come è nata la revisione della Costituzione L’incapacità – o non volontà, che è lo stesso – di porsi entro una prospettiva effettivamente ‘costituzionale’ non è fatto recente. È da quando la crisi dei partiti si è avvitata su sé stessa che si è cercato di imputare alla Costituzione responsabilità non sue, sfuggendo così la questione reale, che si poneva sul piano politico-sociale, non certo su quello propriamente costituzionale, della progressiva evaporazione della rappresentanza politica. Ciò spiega molto dei fallimenti continui della stagione che è alle nostre spalle, costellata da revisioni costituzionali avventate, ma anche dalla morte di tutti i partiti novecenteschi, da una distanza sempre più preoccupante tra coloro che gestiscono il potere e la società, da una crescente perdita di senso della politica democratica.

Una nuova classe dirigente ha preso il potere. Un ceto politico cresciuto nella crisi di sistema, una nuova generazione figlia del suo tempo. Dice di voler cambiare passo, ma, in realtà, perpetua gli errori che ci hanno condotto sin qui. Anzi, in materia di riforma costituzionale sembra rilanciare la prospettiva ‘politicista’, dimostrando che, se i padri non si sono dimostrati all’altezza del compito, i figli non hanno neppure la necessaria consapevolezza.

Così, alcuni indizi segnalano la distanza che, da ultimo, ha separato l’agire politico dalle logiche stesse che dovrebbero sovraintendere la discussione sulle regole costituzionali. Se si esaminano le vicende che hanno portato al varo e poi all’approvazione da parte del Parlamento del ddl Boschi emerge una sostanziale alterità tra comportamenti posti in essere e lo spirito della Costituzione.

Nel nostro sistema la revisione della Costituzione – democratica e pluralista – pretende che si ricerchi un particolare tipo di ‘compromesso’, assunto nel più nobile significato kelseniano. Non schiacciato sul principio di semplice maggioranza e sulla contrapposizione tra le forze politiche e le componenti parlamentari (che regge invece l’ordinaria modalità di decisione delle assemblee legislative), bensì conseguito in virtù di una discussione tra progetti e indirizzi diversi, in cui il confronto si ponga a fondamento della sintesi che legittimerà il nuovo ordine, da tutti riconosciuto proprio perché espressione di un ‘libero’ confronto tra tutte le parti. Presupposto legittimante il ‘patto’ fondativo i rapporti politici di convivenza comune è dunque la particolare discussione (tra pari e senza vincoli di parte) e modalità di decisione (che tende all’integrazione delle posizioni).

Proprio questa logica di integrazione (alla ricerca dei valori onnicondivisi) vale a distinguere nel profondo l’azione di Governo, che deve invece perseguire scopi particolari, indirizzi politici maggioritari condivisi solo da una parte politica predefinita (formalmente individuata nella nostra forma di governo mediante l’approvazione di una specifica mozione ‘di fiducia’). Alle altre parti – le minoranze – è assegnato, invece, il fondamentale compito di contrapporsi e controllare, al di fuori da ogni esigenza di gestione consociativa del potere. L’azione di Governo dunque divide, la Costituzione invece unisce.

Per questo il topos della riforma costituzionale è il Parlamento. Pur se non si deve dar luogo ad una ‘nuova’ Costituzione (che pretenderebbe un’apposita Assemblea, eletta a suffragio universale e con metodo proporzionale, anche in questo caso sanzionando la distanza dall’ordinaria gestione del potere) è comunque essenziale che sia l’organo rappresentativo della sovranità popolare il titolare del potere di revisione della Costituzione e che siano i rappresentanti direttamente eletti i protagonisti del mutamento.

Ora, tutti questi principi sono stati stravolti, ovvero sono stati riletti in chiave oligarchica. Il ‘compromesso’ costituzionale, infatti, è stato sì siglato, ma al di fuori del Parlamento e tra ‘capi’, con l’esclusione delle voci dissenzienti.

La volontà di estromettere l’organo della rappresentanza popolare per far diventare la revisione costituzionale una questione di ‘governo’ è stata manifesta e continua. Non solo il disegno di legge costituzionale è stato presentato direttamente dall’esecutivo, ma la direzione dei lavori parlamentari è stata sempre e solo nelle mani della maggioranza (ovvero del leader del partito maggiore e del ‘suo’” ministro per le riforme). Alcuni episodi appaiono assai significativi. È stata la stessa relatrice del ddl in discussione al Senato ad affermare che gli emendamenti da lei presentati venivano ‘vistati’ dal Governo, rilevando così chi fosse il suo reale ed unico interlocutore. Quando, poi, durante la discussione in Commissione si sono manifestate posizioni alternative a quelle definite dal Governo, che sono parse in grado di poter ottenere un vasto consenso, si è provveduto a sostituire i senatori ‘non allineati’, facendo prevalere ragioni di disciplina di gruppo (assai discutibili in materia costituzionale) sul chiaro principio costituzionale del libero mandato e della rappresentanza nazionale di ogni parlamentare.

La negazione di ogni logica di ‘compromesso’ costituzionale s’è poi palesata in Assemblea durante la fase che dovrebbe essere dedicata alla discussione, alla razionale definizione della sintesi e poi – solo in seguito – alle votazioni sui singoli articoli e sull’intero testo.

Si è giunti in Aula con un testo ‘di maggioranza’ definito esclusivamente in base ad un accordo tra Governo e relatori, scritto in base ad un ‘patto’ extraparlamentare siglato tra leader di partito, con l’esclusione di ogni altro soggetto: estromessi sia le forze politiche organizzate, tanto di maggioranza quanto di opposizione, sia tutte le voci esterne alle parti contraenti che non condividevano il contenuto della proposta di revisione. Ciò ha indotto chi si opponeva alla riforma, ritenendo chiusi tutti gli spazi del confronto, a mettere in pratica la tecnica dell’ostruzionismo parlamentare. Di fronte ad una impossibilità di dialogo (da un lato una maggioranza blindata dall’accordo extraparlamentare, dall’altro una guerriglia di mera ostruzione predisposta da una opposizione senza voce) chi avesse voluto salvare lo spirito costituente avrebbe dovuto proporre azioni distensive, metodi dialoganti, interpretazioni aperte e concilianti dei regolamenti e delle prassi. Fare di tutto, insomma, per superare le rispettive rigidità, assicurando – in ogni modo e in ogni caso – un dibattito vero e un confronto aperto. Così non è stato. Su impulso del Governo, la questione dei tempi di approvazione ha invece assunto un plusvalore politico inusuale, assolutamente improprio se riferito alla modifica del testo costituzionale. Si sono volute rigidamente adottare tutte le misure regolamentari che riducono al minimo la discussione, essendo finalizzate ad un unico obiettivo: l’approvazione in tempi certi di un provvedimento legislativo. Se l’abuso di questi metodi restrittivi sono discutibili nei casi di approvazione di leggi ordinarie e nel normale svolgimento della vita dei Parlamenti, essi risultano insopportabili (perché estranei alla sua diversa logica) nei casi di revisione costituzionale. Ebbene, le decisioni assunte a maggioranza dalla conferenza dei capigruppo, dall’Ufficio di presidenza e dal Presidente di assemblea, di contingentare i tempi di discussione, utilizzare tecniche di drastica riduzione degli emendamenti, separare nettamente il tempo dedicato alla discussione da quello impiegato per la votazione hanno determinato una situazione paradossale. S’è alla fine approvato un testo di revisione della nostra Costituzione senza un confronto reale, consumato il tempo di discussione in risse verbali e contestazioni procedurali, senza mai una disponibilità reale al dialogo (salvo le strumentali accuse rivolte agli avversari di turno di non voler cambiare, non voler discutere, non volere accettare il nuovo e la rapidità del cambiamento inarrestabile, ovvero di pulsioni autoritarie non meglio definite). Non si sarebbe mai dovuto assistere allo spettacolo surreale che – una volta esaurito il tempo ‘concesso’ per il dibattito – ha visto un Assemblea muta ed irriflessiva procedere ad un’interminabile serie di votazioni, che meccanicamente respingeva ogni emendamento dei senatori di opposizione ed approvava la riforma definita dagli accordi con il Governo.

La delegittimazione del potere di revisione della Costituzione esercitato su impulso del Governo, assistito dalla maggioranza dei parlamentari, nonché definito un base ad un accordo privato (tra alcuni leader ovvero tra oligarchie di partito) è alla fine stata sanzionata dal rifiuto di partecipare al voto conclusivo da parte di tutti gli oppositori. Un esito che dovrebbe far riflettere ed indurre a cambiare il metodo, prima ancora dei contenuti della riforma della Costituzione.

Ciò che in fondo è mancato in tutta quest’ultima vicenda è la consapevolezza che si stesse discutendo di una riforma profonda del nostro assetto dei poteri e degli equilibri complessivi definiti dalla Costituzione. Se si fosse partiti da questo assunto, se si fosse percepita la reale posta in gioco, se si fosse compresa la logica di fondo – culturale, ma anche politica – che si impone quando si vuole rivedere il patto costituzionale, non si sarebbe potuto accettare, in nessun caso, un andamento che ha sostanzialmente impedito ogni seria discussione su tutti i punti della revisione proposta.

Non si doveva accettare nessuna forzatura sui tempi, nessuna interpretazione regolamentare restrittiva dei diritti delle opposizioni, nessuna utilizzazione estensiva dei precedenti. Non si doveva fare della riforma della Costituzione un affare del Governo in carica, il quale dalla Costituzione trae legittimazione e che non può invece disporre di essa. Si doveva in sede parlamentare ricercare il dialogo, la trasparenza, il concorso di tutti i rappresentanti della nazione. Era compito di tutti creare un clima ‘costituzionale’, idoneo alla riforma. Nessuno lo ha ricercato. E ritengo non sia solo una questione di intemperanza degli attuali protagonisti della politica italiana, temo – ahimè – si tratti ben più gravemente di una mancanza di cultura costituzionale.

Il referendum per cambiare

La strategia dei fautori della riforma è chiara, enunciata senza mezzi termini dal presidente del Consiglio: “da una parte ci saremo noi, il partito del cambiamento, dall’altra loro, i difensori della casta, e gli italiani non avranno dubbi” (così riporta La Repubblica del 9 gennaio 2016).

Spetta agli oppositori decidere se accettare questo terreno di scontro avversando il nuovo che avanza in nome di nobili principi calpestati, proponendosi come i custodi di valori di democrazia e civiltà offesi, esponendosi però così all’accusa di conservatorismo; oppure valutare se vi siano le forze e la voglia di cambiare registro, giocando la partita referendaria non in difesa, ma all’attacco. Per questo è necessario contrapporre uno sguardo lungo alla miopia del potere: denunciando l’incapacità della riforma costituzionale ad affrontare la grave situazione di crisi dello Stato costituzionale, rilevando la distanza che separa il testo proposto da un possibile progetto di società in grado di disegnare un futuro migliore e una democrazia più partecipata e condivisa.

Per riaffermare oggi le ragioni del cambiamento, ciò di cui abbiamo bisogno è una ben maggiore capacità innovativa, una vera inversione di rotta. A tal fine è essenziale riuscire a ribaltare quel che una narrazione falsa, sebbene oggi dominante, vuol far credere: questa non è una riforma in grado di innovare, semplificare, ammodernare il nostro assetto costituzionale. In caso si tratta di una controriforma di carattere difensivo, attraverso cui si tende a contrastare chi mina l’autorità del potere costituito, nel segno della continuità della storia passata.

Le modifiche costituzionali risultano, infatti, inadeguate, non limitano gli abusi del passato, si pongono in forte continuità con quelle logiche regressive (in sintesi: rafforzamento dell’esecutivo e svalutazione della rappresentanza) che ci hanno portato in questa situazione di crisi, dalla quale è necessario fuoriuscire. Si impone allora una lotta tra “noi, il partito del cambiamento e loro i difensori della casta”, per riprendere le espressioni tranchant del Presidente del Consiglio, ovvero, più correttamente, una battaglia contro i conservatori al potere.

Per far passare entro l’opinione pubblica questo messaggio di verità, nonostante l’evidente sproporzione di forze, credo sia necessario non farsi attrarre dalla politica dell’illusionismo emotivo (fatta di slogan e rissa mediatica), per provare a riflettere con serietà sui punti di caduta del nostro ordinamento costituzionale, concentrando la nostra attenzione sulle fragilità della democrazia contemporanea che sono all’origine della crisi politica, sociale e morale del paese.

Due le questioni da mettere al centro del dibattito. Da un lato, il tema della crisi del ruolo del Parlamento, organo svuotato, privato della sua essenza e del suo valore. Già Leopoldo Elia, nel 2000, parlava di ‘fuga’ dal Parlamento. Una fuga che non si è arrestata. Dall’altro, il problema della rappresentanza politica, offesa, svuotata, senza più regole (propriamente sregolata), viziata nel profondo dalla distanza sempre più preoccupante tra governati e governanti.

In questa situazione, la domanda da porre – con forza – è la seguente: la riforma costituzionale affronta in modo adeguato la gravità dei problemi? Il nostro revisore, l’attuale maggioranza, il governo in carica, riescono a dare nuovo impulso alle due questioni indicate sulle quali si regge la democrazia pluralista, oppure continua a farci restare nel pantano?

Superamento del bicameralismo: è vera riforma?

Iniziamo dal Parlamento. S’è modificato il bicameralismo perfetto. Bene. Ma veramente si pensa – o si vuol far credere – che i mali del parlamentarismo si possono affrontare passando dal bicameralismo perfetto ad un bicameralismo confuso com’è quello che è stato immaginato? Ci si può veramente illudere che la crisi del regime parlamentare si possa affrontare intervenendo solo sulla redistribuzione delle funzioni e sulla composizione delle due Camere, non considerando per nulla le ragioni strutturali che sono alla base dello svuotamento del potere parlamentare?

Bisogna essere più radicali. È la forma di governo parlamentare che deve essere ripensata, oggi in sofferenza a causa dello squilibrio nei rapporti tra Governo e Parlamento, sbilanciamento a favore del primo e a scapito del secondo. Chi studia le forme di governo lo sa sin dai tempi di Aristotele: la perdita di equilibrio è il danno più grande, il rischio maggiore, poiché può condurre alla loro degenerazione. Il saggio revisore, il vero innovatore, anziché favorire l’involuzione rafforzando i poteri dell’esecutivo e comprimendo ulteriormente quelli del legislativo, dovrebbe fare esattamente l’inverso.

Bisognerebbe limitare e regolare lo strapotere del Governo in Parlamento, intervenendo sul profluvio ingiustificato di richieste di fiducia, sulla decretazione d’urgenza, sui maxiemendamenti, che umiliano l’autonomia del Parlamento e dei parlamentari; si dovrebbero riscrivere i regolamenti, per regolare il dibattito parlamentare ed evitare i tempi contingentati che impediscono il confronto; sarebbe necessario assegnare alle opposizioni uno statuto ben definito e di garanzia, ostacolando così le pratiche ostruzionistiche a volte impropriamente utilizzate; appare urgente intervenire sull’organizzazione dei lavori per ridefinire il rapporto tra Commissioni e Aula, ricollocando al centro le Commissioni – vero luogo di approfondimento e libera discussione – rispetto all’Aula che ormai non rappresenta altro che un teatro della divisione, raffigurazione vuota e solo spettacolare del nostro organo parlamentare e dei nostri – spesso scalmanati – rappresentanti.

Certo si dovrebbe intervenire anche sulla struttura bicamerale. Ma – nella prospettiva del rilancio del parlamentarismo – bisognerebbe essere ben più radicali e coerenti. Tentare di riunificare la sovranità della rappresentanza popolare: un’unica Camera eletta con un sistema proporzionale. Chi se la sente di proporre una riforma rivoluzionaria come questa? Eppure in passato era proprio questa la frontiera più avanzata della sinistra. Poi la sinistra è evaporata e le frontiere sono state aperte, scomparse dalla topografia politica.

Rispetto alla gravità della crisi del Parlamento come ha operato il nostro revisore costituzionale? Per dirla in sintesi: non ha scelto nessun modello e ha approfittato della confusione per acquisire un po’ di potere in più a favore di chi attualmente – ma solo pro tempore – lo detiene, favorendo il processo regressivo in atto.

Che non abbia scelto nessun modello appare chiaro se si guarda a come ha differenziato il bicameralismo. Nulla ha toccato con riferimento alla Camera dei Deputati, lasciando tutti i vizi che attualmente la attraversano, rendendo invece il Senato un Ufo, un oggetto non identificabile per struttura, funzioni, composizione.

Eppure, poteva scommettere sul rilancio del regionalismo italiano e invece ha svuotato le competenze e i poteri degli enti territoriali. Per affermare le ragioni delle autonomie politiche locali avrebbe potuto istituire una vera Camera delle Regioni (sul modello tedesco, spesso impropriamente evocato), ha invece assegnato all’organo Senato competenze miste in parte riferibili ai rapporti Stato-autonomie, in parte legate a funzioni generali di controllo. In alcuni casi addirittura eccedendo: il Senato dovrà valutare le politiche pubbliche e l’attività della pubblica amministrazione. Tutte le ‘politiche’ e l’intera ‘attività’? Se le nuove disposizioni costituzionali dovessero essere prese sul serio avremmo creato un mostro dirigista.

Il nostro revisore si è proposto l’obiettivo di semplificare il procedimento di formazione delle leggi ritenuto, non a torto, troppo farraginoso nel sistema attuale di bicameralismo perfetto. Ma è riuscito nel capolavoro di passare da uno a sette distinti iter, aprendo la strada al moltiplicarsi dei ricorsi alla Corte costituzionale per vizi inerenti al procedimento. Una soluzione che aumenterà la conflittualità e trascinerà il giudice costituzionale nell’arena dello scontro politico. Uno scenario che non potrà che rendere ancor più complesso il far leggi in Italia.

Ha adottato, infine, un non-criterio di composizione dell’organo. Come altro può definirsi, infatti, il compromesso (‘compromesso’ si fa per dire) definito all’art. 57 che prima introduce il principio dell’elezione indiretta dei senatori da parte dei Consigli regionali, per poi smentire sé stesso, assegnando la scelta, con formula in realtà anodina, agli elettori, rinviando poi tutto ad una futura legge bicamerale. La verità è che il Governo in Parlamento, per uscire da un’impasse che rischiava di non fargli ottenere i voti necessari, ha mostrato il lato peggiore della politica: non un’arte al servizio della polis, alla ricerca di un possibile accordo tra parti diverse, bensì mezzo fine a se stesso. Un modo di intendere la ‘politica’ che può essere legittimata a perseguire anche i risultati più irrazionali.

Ma, al di là delle critiche puntuali, delle improprietà tecniche, quel che mi preme sottolineare è il dato di fondo: questa riforma non è adeguata alla reale problematicità della crisi in atto, non ridarà dignità al parlamento, né è il frutto di una buona politica costituzionale.

Essa rappresenta, in continuità con il passato, un ulteriore passo verso la sclerosi del sistema parlamentare. C’è bisogno di altro in Italia. C’è bisogno di qualcuno che ridia speranza al futuro del parlamentarismo, rilanciando le sue ragioni, ponendosi al passo con i tempi, non abbandonandosi invece ad un triste declino d’addio.

La rappresentanza politica

Non avremo un sistema parlamentare funzionante in Italia se non saremmo in grado di affrontare con spirito veramente innovativo anche la seconda collegata questione della rappresentanza politica.

Come si può infatti pensare di porre al centro un Parlamento se questo dovesse continuare ad essere composto solo da anime morte? Non voglio cedere all’antipolitica dominante o a screditare i rappresentanti delle istituzioni democratiche, non escludo per nulla dunque che ancor oggi alle Camere si possano incontrare singole coscienze inquiete, diverse sensibilità generose, alcuni spiriti capaci, ma pur sempre corpi inanimati, i cui legami con la realtà del rappresentato appaiono sempre più compromessi.

Una democrazia rappresentativa che verrà ulteriormente svigorita da un sistema elettorale, che – in forte continuità con il passato – rende sempre più sfumato il rapporto tra chi vota e chi è eletto. Non a caso le critiche alla riforma costituzionale si accompagnano a quelle sulla legge elettorale, disegnando entrambe un medesimo quadro d’insieme.

Se, però, si vuole affrontare con la necessaria radicalità la crisi costituzionale che stiamo attraversando, opponendosi efficacemente ai conservatori che da troppo tempo continuano a gestire l’esistente, deve anche essere detto che la crisi della rappresentanza non è solo determinata da una brutta legge elettorale. Se si vuole prospettare un reale cambiamento diventa indispensabile alzare lo sguardo per denunciare la progressiva autoreferenzialità della politica, il coma profondo in cui sono caduti i corpi intermedi, il sonno delle formazioni sociali, dei partiti in specie, la progressiva verticalizzazione di tutti i poteri, l’inaridirsi e il burocratizzarsi dei canali della partecipazione, la chiusura degli spazi politici. Insomma, è del fallimento della democrazia maggioritaria che dovremmo parlare.

Mi rendo conto, in tal modo sto decisamente allargando il discorso. Ma a forza di semplificare siamo arrivati alla politica dei tweet, alla Repubblica delle slide, alla richiesta di plebisciti di carattere fiduciario e personale su questioni che coinvolgono la qualità della nostra democrazia. Dovremmo tornare a porci i problemi di governo delle democrazie pluraliste nella loro reale complessità. Per fuoriuscire dal lungo regresso e tornare a parlare al futuro. Il referendum costituzionale ne sarà l’occasione?